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30/12/10

Indicente nucleare in Niger

Lo scorso 11 dicembre presso la miniera d'uranio Somair in Niger oltre 200.000 litri di fanghi radioattivi sono fuoriusciti da tre piscine lesionate riversandosi nell'ambiente. Una catastrofe radioattiva nel silenzio.
In Africa pochi giorni fa è accaduta una vera e propria catastrofe radioattiva nel disinteresse del mondo occidentale che pretende energia "pulita" dall'atomo (che è una contraddizione in termini). Secondo rapporti di ONG e di Greenpeace, proprio in questi giorni di grande spolvero di comunicazione del nucleare italiano, dove al Forum Nucleare Italiano arriva una notizia che fa venire ancora più dubbi sulle centrali nucleari, riprendendo il tema dello spot tv. Difatti, come riporta il blog di Greenpeace, "Il 17 dicembre Greenpeace ha ricevuto rapporti verificati che dallo scorso 11 dicembre oltre 200.000 litri di fanghi radioattivi da tre piscine lesionate si sono riversati nell’ambiente presso la miniera d’uranio Somair".

Quest’ulteriore perdita mostra che le cattive pratiche gestionali di Areva continuano a minacciare la salute e la sicurezza della popolazione e dell’ambiente. Contrariamente alle dichiarazioni di Areva di rispettare in Niger gli standard di sicurezza validi a livello internazionale, queste notizie dimostrano che non ha fatto abbastanza per proteggere la popolazione. Per chi ha ancora dubbi che l'"energia nucleare" sia pulita (e non solo trerribilmente readioattiva). Il nucleare quindi dimostra ancora una volta di soffrire di una filiera "sporca" (dalla miniera al reattore sino allo smantellamento) che ne fa una sorgente di energia non sostenibile.

http://www.nocensura.com/2010/12/gravissimo-incidente-nucleare-in-africa.html

22/12/10

L'agricoltura delle relazioni

Ci sono volte in cui guardiamo fuori dal finestrino, passando veloce in macchina, e stentiamo a riconoscerci nel paesaggio che vediamo. Quello che viene restituito al nostro sguardo, non è propriamente ciò che definiremmo “naturale”. Capannoni industriali, sempre nuovi centri commerciali e imponenti multisala, si stagliano ormai senza soluzione di continuità lungo tutto lo stivale, senza trovare ostacoli al loro fastidioso proliferare. Indisturbati e grigi, sono tra i responsabili dello stravolgimento del paesaggio delle nostre pianure. Ma la banalizzazione del paesaggio non è solo una questione grigia come il cemento. Molto spesso, essa assume i colori e le dimensioni tendenti all’infinito dell’agricoltura intensiva e monocolturale. Distese giallo-verdi di mais, grano e riso della Pianura Padana e filari ordinati di meli della Val di Non, ci hanno abituato a ritenere che le uniche forme di agricoltura possibili siano quelle che vediamo, dipinte senza sbavature come in un quadro dai contorni perfetti. Abbiamo applicato i criteri della resa economica e dell’efficientismo esasperato ad una delle pratiche più antiche e nobili che hanno fatto dell’uomo un essere civile: prendersi cura della propria terra, in armonia con essa. Nel dipingere il quadro, abbiamo messo tra parentesi, sottovuoto, le pratiche agricole legate alla tradizione dei luoghi rurali, intessute di relazioni e saperi tramandati nel tempo. In pochi decenni, molte sementi sono andate quasi scomparendo, e con esse anche le migliaia di pezzetti di quel mosaico che componeva la ricchezza culturale dell’Italia contadina. E se prima si utilizzavano pratiche non dannose per l’ambiente e per la salute umana, ora, in nome del guadagno e della produttività, si ricorre ai fertilizzanti e ai pesticidi, fortemente inquinanti. Ci siamo lasciati prendere la mano dalla foga della produzione su larga scala, in un mercato globale che schiaccia chi cerca di difendersi dall’omologazione forzata, anche nel campo dell’agricoltura. Abbiamo dimenticato che coltivare la terra è un modo per sentirla propria, per costruire un legame profondo tra noi e il luogo in cui viviamo, e non solo un mezzo come un altro per fare profitto. Come non riconoscere un decadimento culturale nell’abbandono delle moltissime cascine che hanno rappresentato un elemento caratteristico del paesaggio rurale del Nord Italia? Ormai ridotte a scheletri, vengono lasciate al loro destino, salvo poi ricostruire sulle loro macerie dei nuovi quartieri residenziali, tutti uguali l’uno con l’altro e del tutto avulsi dal contesto paesaggistico in cui si trovano. La perdita di valore ambientale e culturale delle nostre campagne, non è un discorso per nostalgici e ambientalisti. Dovrebbe, anzi, essere al centro di una politica delle responsabilità, che depuri la parola “territorio” dal retrogusto amaro della retorica leghista. E allora forse è venuto il momento di allargare la cornice del quadro, per recuperare un disegno d’insieme fatto di concretezza e passione. Cosa fare? Perché non guardare con attenzione all’articolato “mondo dell’altreconomia”, laddove si fa strada una progettualità che diventa azione, all’insegna del recupero di quanto è stato messo tra parentesi dai pittori maldestri della prima ora? Un modello di sviluppo che salvaguardi le economie locali, dove trovino spazio i piccoli coltivatori diretti e quanti non hanno abbandonato l’ambizione di poter vivere semplicemente del proprio lavoro: un’agricoltura senza “l’ansia da prestazione”, biologica e rispettosa della terra e delle acque, patrimonio comune da tutelare. I gruppi di acquisto solidale (GAS) rappresentano un modello efficace di “economia del buon senso”, all’interno del quale le relazioni umane di qualità giocano il ruolo principale: più nuclei familiari si organizzano e orientano i loro consumi verso alimenti provenienti da circuiti locali di produzione, acquistando frutta, verdura, latticini e carni direttamente dai piccoli agricoltori e allevatori presenti sul territorio. In questo modo, si contribuisce alla crescita di un sistema economico che non esaurisce le risorse ambientali scarse, e che, invece, offre possibilità di sviluppo concreto a tutte quelle realtà vitali di cui, nonostante i pittori del banale, è ricca l’Italia.
Agostino Cullati

Buon Natale

Vi facciamo i più cari auguri sostenibili di Natale con questo breve articolo di Ettore Livini tratto dalla rubrica "Alluce verde" nella pagina milanese del quotidiano La Repubblica 


"Avete riunito la famiglia - bambini compresi - attorno al tavolo. Ognuno ha esposto pacatamente le proprie eco-ragioni. Poi si è votato e avete fatto il grande passo: quest'anno in casa si monterà un albero di Natale finto per non soffocare di luminarie un povero peccio (condannandolo a morte certa) e per rispettare la natura. Bene. Adesso beccatevi questa: un'università svedese ha messo a confronto il consumo energetico di un bell'abete di 10 anni, due metri d'altezza e 10 chili di peso contro il suo cugino artificiale, venti chili, made in Hong Kong. Risultato: ammettendo un generoso ciclo di vita di dieci Natali per il clone in plastica, quest'ultimo - tra viaggio in nave dall'Oriente all'Europa e produzione - brucia cinque volte più energia della conifera naturale. Non solo. Mentre l'abete originale viene smaltito senza scorie, il suo succedaneo ci lascia in eredità nell'aria una scia poco natalizia di diossina. Che fare allora? Riunire di nuovo il conclave domestico ribaltando le conclusioni ecologiche, ovvio, minerebbe l'autorità dei genitori. La soluzione è tornare alle origini: in fondo l'Italia per secoli ha celebrato Natale con il presepe... " Ettore Livini